Ddo’ l’adà deé

4 Febbraio 2013 2 Di thomas

E decise di partire.
Era martedì. E c’era un forte vento. Ed era notte.
E l’inquilino del terzo piano non era ancora rientrato. E alla radio suonava un vecchio brano di Sergio Endrigo.

Io, io ti inventeroooooò…

la scusa… per restare sempre quiiiii!

Ti fermerooooò… chiusa dentro meeeee…

libera e felice… ma chiusa dentro meeeee!

Decise di partire lo stesso.
Prima di uscire di casa però, volle farsi un caffè. Uno di quei caffè che solo le vecchie moka arrugginite e senza coperchio sanno sbavare via come si deve.
Ciuf ciuf ciuf… Sembrava un treno, una locomotiva del far west, lenta alla partenza così come agli attacchi dei pellerossa. E la schiuma color marrone zuccherato cominciò a venir fuori a piccoli glug schizzati, odorosi, un po’ vermigli.
Sì, un bel caffè bollente! Poi via, senza cappotto e senza ombrello. Solo lui e il vento.
Lei dormiva.
Bella (oh, se era bella quando dormiva!). C’erano notti che si svegliava solo per guardarla respirare piano sotto le lenzuola. E si metteva gli occhiali. Per vederla meglio.

Decise di partire.
Aveva già in mente un piano. Preciso, un po’ smodato, vagamente vermiglio, avrebbe detto. Come quel caffè.
Piano, in punta di piedi, aprì la porta e uscì.
Oh, guarda l’inquilino del terzo piano stava salendo su! Rientrava, finalmente!
Uscito in strada lo salutò il vento. Una folata rabbiosa fece rumoreggiare una lattina verde di birra, probabilmente tedesca; la riconobbe dal metallicare che faceva la lamiera rotolando sull’asfalto.
Poi un’altra folata.
E un’altra.
E un’altra ancora. I suoi capelli si spettinarono un po’, seccati da quella troppo improvvisa apertura del ballo. Comunque ormai era fatta. Era fuori.

Ora doveva cercare il primo.
Il primo era fondamentale, senza di lui non se ne poteva fare nulla!
Vagò per un quarto d’ora tra auto parcheggiate, negozi, bidoni dei rifiuti. Palazzi e resti archeologici di un ordine cittadino che il malumore del tempo si era divertito a scombussolare.
I mozziconi di sigarette in gara sul marciapiede non si contavano. Uno, due, tre… No, no, non si potevano proprio contare!
Una scatola di scarpe vuota stazionava in mezzo alla strada: una Ford Fiesta la mancò per un pelo. Pochi minuti dopo un cane la urinò in pieno.
La prima pagina di un Resto del Carlino di chissà quanti mesi prima si era appiccicata alla base di un palo della luce e aveva cominciato a fare delle avances molto spinte al tronco di metallo.
Meglio non guardare, non è educato.

Ah! Ecco il primo, finalmente!
Un tizio – sicuramente un operaio, dato che portava uno di quei monclair da paninaro che andavano tanto di moda negli anni ottanta (quelli con lo stemmino vera piuma d’oca, quelli che se quindici anni fa li pagavi da svenarti, oggi li trovi al mercato dell’usato che te li tirano dietro) – un tizio, dunque, veniva verso di lui camminando a testa bassa, rasente il muro, come a volersi riparare dall’estro carnascialesco di quel vento.
Brrrr!… pareva che dicesse, e arrivava giù – un du-è! – a passo di marcia.

– Mi scusi…

Il tizio alzò lo sguardo stupito, ma non spaventato.

– Mi scusi, sa, avrei bisogno di un favore.

Ora l’espressione dell’uomo stava in equilibrio tra il seccato e l’interrogativo.
– Ecco, avrei bisogno di… di una direzione.

– Cerca una via? – rispose il tizio, col piglio di chi ha fretta e vuole farla breve.

– No, no, ecco, basterebbe che lei mi indicasse una direzione, una qualsiasi, a suo piacere… una strada. Mi mandi dove vuole.

– Ma va’ a cagare, va’! Pirla! – esclamò quello, ormai sicuro che il suo interlocutore fosse solo un rompiscatole che aveva voglia di scherzare (forse perché non aveva sulle spalle otto ore di fabbrica come lui). E proseguì per la sua strada.

Ecco, lo sapevo, ora dovrò cercarne un altro! Si indispettì invece lui, scoraggiato.

No, il primo non era quello. Tutto da rifare.

Ma… un attimo!

Va bene che il tizio lo aveva mandato a cagare, ma aveva anche accompagnato l’invito col tipico gesto della mano che si fa quando si vuole cacciare qualcuno!
Una dritta, pur non volendolo, gliel’aveva data!
Di là! In pratica nella direzione da dove la vera piuma d’oca e la sua educazione erano venuti!

– Mi ha mandato in fabbrica – gli venne da ridere e da pensare – Farò come mi ha detto.
E, felice di avere finalmente una strada su cui camminare, partì.

A lungo, per ore, seguì quella direzione. Corso Tazzoli, dove aveva incontrato il tizio, divenne Corso Manzoni. Poi D’Annunzio, Cavour e Pio IX; salutò Garibaldi che sfociava in Piazza Leopardi.
Sì… ma da lì? Una piazza è l’incontro di più strade, strisce di mezzeria che si curvano felici su lati opposti, semafori che decidono quale senso abbiano i rettangoli zebrati dei pedoni!
Da che parte sarebbe dovuto andare, ora?
Gliene serviva un altro. Un altro indicatore, un’altra freccia umana.
Non c’era nessuno in piazza. Neanche un cane.
Erano le quattro del mattino. Mercoledì. Niente più vento. Solo freddo e qualche nuvola.
Nessuno.
Sotto la pressione dei suoi piedi, foglie secche scoppiavano come castagne sulla padella coi buchi, neon biancastri sfocavano le vetrine dei negozi, rumori… Una macchina! Ecco! Là! Una macchina!

– Ehi! Ferma! Ferma!

Corse incontro a quei fari come un beduino nel deserto corre incontro a un miraggio.

– Ferma! Ferma!

L’auto frenò.
Il conducente abbassò il finestrino pochissimo, lo stretto necessario per far entrare un filo d’aria e le loro voci. Ascoltò quest’uomo che l’aveva fermato e parlava velocissimo.

Guardi lo so non vorrei disturbare non mi mandi a quel paese ho bisogno solo che lei mi dica dove devo andare cioè basta che mi indichi una strada qualsiasi quella che vuole lei non mi dica di no dove lo trovo un altro a quest’ora di notte?

– C- che cosa vuole? – esclamò l’altro.

– Quale di queste strade, secondo lei, dovrei prendere?

– Ma per andare dove?

Niente, nessuno capiva. Ma perché tutti vogliono sapere dove va un altro?

– Ma che cazzo gliene frega di dove vado! Mi vuole indicare una strada o no? – urlò, esasperato dalla lentezza di ragionamento d’uomo – Io voglio solo che lei mi dica di qua o di là. A destra o a sinistra. Oppure dritto. Lo capisce questo?

Il conducente dell’auto non capì, ma fece finta.

– Oh, sì. Sì… Di qua, di là… Certo, mi scusi, sa, non avevo capito, certo… Guardi, prenda quella strada…

E se ne andò sgommando.
Chiaro: l’aveva preso per un pazzo.
Pazienza: almeno adesso aveva una direzione!
Ripartì.
Poi venne giorno, e fu più facile. C’era un maggior numero di persone per la strada e, se qualcuno lo mandava a cagare, a lavorare o a fare in culo, c’era sempre qualcun altro che – pensando ad uno scherzo, a un pazzo, o semplicemente a non perder tempo – gli indicava comunque dove andare.

Andò avanti così per due mesi, tre settimane e diciassette giorni, mangiando e bevendo come poteva, facendo i bisogni nei locali pubblici o per la strada, chiedendo ogni tanto l’elemosina di qualche soldo e una direzione. Avanti così, dormendo qua e là, dove capitava.

Finchè giunse in riva al mare.

L’ultima persona a cui aveva chiesto un’indicazione era stata una bambina di circa sei anni che, probabilmente pensando ad un nuovo gioco, era stata l’unica che subito, senza pensarci né fare domande, gli aveva detto: di qua!

il mare

Gli era già capitato di dover tornare indietro. Le persone, se chiedi una direzione, non possono sapere da dove vieni. Può capitare che, senza volerlo, ti rimandino su una strada dalla quale sei già passato.
Ma dover tornare indietro adesso, per quella stupida massa d’acqua lì, che gli impediva il cammino… Cazzo! Gli seccava.
La prossima persona al massimo gli avrebbe potuto dire di costeggiare il mare, di camminare lungo la spiaggia, ma non valeva lo stesso. C’era una direzione bloccata!

Voci.

Un uomo anziano e un bimbo erano lì anche loro, sul bagnasciuga, a qualche metro da lui.
Si avvicinò rassegnato.

– Chiederò a loro, dove andare. Pazienza se una strada è sbarrata!

Stava per interrogarli, quando udì il bimbo chiedere al vecchio:

– Nonno, cosa c’è là dove finisce in mare?

Il vecchio sorrise.

– Eh, altro mare.

– E dopo?

– Dopo? Ancora mare!

– E dopodopo? – insistè il piccolo.

Maremare – rispose il nonno.

– E dopodopodopo?

Maremaremare!

– E dopodopodopodopodopodopo ?

Maremaremaremaremaremare! – disse infine il vecchio. Ed entrambi scoppiarono a ridere.

Non si seppe mai spiegare il perché, ma fu allora, in quel preciso momento, in quel minuto secondo in cui cominciò la risata del nonno e del suo nipotino, che decise di tornarsene a casa.

E non tornò a piedi, no. Prese un treno.
E non parlò con nessuno, neanche col controllore che gli chiedeva il biglietto.
Ci mise tre giorni, a tornare.
Era notte fonda, quando si ritrovò di fronte la porta della sua casa.

Era giovedì, o forse domenica.
E l’inquilino del terzo piano… Bah! Non gliene fregava un cazzo dell’inquilino del terzo piano!
E la radio era spenta, ma non si volle fare un caffè.

Lei dormiva.

Chissà, forse non s’era neanche accorta che il suo uomo era stato via per un po’.

Non c’era vento là fuori, solo un pezzo di cielo.

Ma guardava lontano.

Dentro altre

finestre

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©Thomas Pistoia

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