Nome di donna

12 Luglio 2009 0 Di thomas

Una serata cruda, insipida. Non c’erano abbastanza nuvole per dipingere un tramonto come si deve, le mani, nelle tasche del cappotto, stringevano la stoffa interna sfregandola sui palmi, piano.
Cercava una luce più naturale. Anche ovattata. E aveva sperato di poterla scorgere dalla riva, guardando il sottile filo di cotone tra cielo e mare; sì. Aveva sperato in un tramonto migliore…
Ma l’ibrida lampada al neon della cucina, che ogni sera gli tramortiva le pupille e gli occhiali, sembrava averlo ormai privato della capacità di assimilare i colori veri, quelli che poteva prendere solo fuori, all’aria aperta. Le avrebbe volute respirare quelle tinte, quelle sfumature di paesaggio. Avrebbe voluto farsele passare, come un nutrimento, nei pori, nelle vene, sotto le unghie. Ma ogni cosa ormai, attorno a lui, era diventata finta, artificiale, costruita.
Quel sole, cenere accesa di un mozzicone emme-esse, che scendeva al di là della linea maginot tra cielo e mare… Due fogli.
Uno – il cielo – di carta oleata rosa pallido; buona ad un macellaio per impacchettare due etti e mezzo di braciole, insomma. L’altro – il mare – cartapesta bluastra, prima appallottolata, poi distesa facendo ben attenzione alla distribuzione delle grinze, che la confezione risultasse più realistica possibile.
Mah! Farla finita questa sera, non sarebbe stata una cattiva idea!
Si sedette sulla sabbia, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Sulla fronte stempiata, una rada peluria di capelli grigi – quasi un ciuffetto di polvere – danzò per qualche secondo su una lieve corrente di vento, poi si fermò.
Rumore. Sì, come una voce.
Il mare.
Sembrava finto anche lui, è vero, ma era l’unico tra gli elementi che costituivano quell’arredamento, che si ostinava a dar segni di vita.
Tutto inutile, fasullo, un po’ vuoto.
Un figlio all’università: va bene, giurisprudenza, terzo anno, tutti trenta, tranne un ventisette in diritto privato.
Un appartamento in via Don Milani: terzo piano, interno cinque, tre camere e cucina, terrazzino con vista sulle vetrate del Monte dei Paschi di Siena.
Un impiego statale mediamente remunerativo: messo comunale con divisa similvigileurbano e valigetta di pelle nera (finta!), milleduecentocinquantacinque euro al mese.
Una moglie, Marta: quarantadue anni, ancora piacente, commessa di un supermercato in via Prato, a due passi da casa. Amante per tre anni di un avvocato distinto, scapolo, danaroso. Sei mesi, ormai, che viveva con lui.
Uno scoglio, o meglio un sasso calcareo che pareva esser stato ficcato a forza nella sabbia, offriva simbolica barriera alle piccole onde di spuma che scivolavano a tratti sul bagnasciuga; goccioline scaturivano da quegli impatti alternati e si lanciavano, quasi lo facessero apposta, per sfotterlo, sulla sua fronte, sulle sue dita, sui pantaloni, sulle scarpe… Una riuscì finanche a centrarlo sul lobo dell’orecchio!
“Ora mi sposto più in là” pensò, ma non si mosse.
In fondo, gli ironici sputi di quell’acqua, resa sempre più scura dall’impercettibile calare della penombra, non lo infastidivano. Erano come la pacca sulla schiena di un vecchio amico che non sa che dire, vorrebbe consolarti, dire una parola buona, ma non ci sono parole abbastanza buone, non le trova.
Marta…
Buffo nome! Nome da barzelletta di un settimanale di cruciverba!
Quelle vignette con la moglie enorme e panciuta e il marito piccolo e pelato che di solito si chiama Aldo o Onofrio.
Marta ha gli occhi scuri, la pelle liscia, il sorriso fine, un po’ serio; le mani e i piedi piccoli, la vita stretta e i seni a forma di pera… E’ bella, Marta, è ancora bella…
Ma non è il pensiero che ora sua moglie tocca, bacia, vive un altro uomo, a farlo star male, no.
E’ quel tintinnare di forchetta nel piatto, quando mangia da solo; è il disegno spento e quadrato della tovaglia a scacchi di fronte ad una sedia vuota, è il letto matrimoniale sempre disfatto, ma da una parte sola; è la tivù che parla, parla, spara, grida, canta, suona, ride, piange, ama, odia, protesta, pubblicizza, informa, gioca e parla, parla, sempre, troppo, ancora, di più, di più… Dio!
Si tolse gli occhiali. Le lenti erano ormai cosparse di piccole gocce d’acqua, gli schizzi marini continuavano.
Perché prendersi in giro, perché nascondersi a se stesso?
Perché non dirlo apertamente che ora era qui, davanti a questo mare, a lasciarsi sbeffeggiare, deridere, compiangere…
Non era poi un così bel posto quello!
Una stupida striscia di sabbia a due passi dal porto, seminata ad alghe morte e catramate; un puzzo di petrolio e gas di scarico delle fabbriche lì intorno. Una piccola spiaggia avvelenata dalla città, invasa, null’altro. Neanche d’estate c’era qualcuno lì!
Solo il mare, imperterrito, si ostinava a venirla a cercare. E la luna, certe notti. E i gabbiani, qualche volta.
Marta, vent’anni prima, era stata lì. Proprio lì, seduta dove lui è seduto, baciata da quelle stesse gocce d’onda che oggi pungolano lui; è qui che entrambi si promisero amore…
Ma il mare è mare, la luna è luna, la sabbia è sabbia; sono bravi a far da cornice, da paesaggio, da momento. E non è certo colpa loro, se poi tutto finisce…
E di chi è la colpa allora?
Nel mare non è brutto morire; forse è solo un po’ banale, anacronistico, scontato…
Immaginò poche righe nella cronaca nera dei giornali cittadini, i commenti un po’ increduli dei parenti, dei conoscenti, dei vicini di casa:
– L’era un po’ matto, eh?
– Ma che! Non se ne poteva trovare un’altra?
– Sai che gliene frega, alla moglie!
– Ma l’hanno poi trovato, il corpo?
Nessuno avrebbe compreso, ma che gli importava?
No, nel mare non è brutto morire…
In fondo cos’è? Un attimo…
Un passo dopo l’altro. Il freddo; ai piedi, alle caviglie, alle ginocchia…
Uno sciacquìo, un soffio di vento, la triste risata di un gabbiano, una striscia scura al centro della luna; il fischio di una sirena, luci di pescatori sulla linea maginot, ancora freddo, freddo, freddo, freddo…
Un gorgoglìo, come una bocca che si spalanca e inghiotte, poi… un’ultima onda che cancella quella sera di vent’anni fa e quest’ultimo momento.
Un paio d’occhiali abbandonati su di una stupida striscia di spiaggia.
Un nome di donna scritto sulla sabbia.

Portato via.

Subito.

Dal vento.

©Thomas Pistoia

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