Marco Poggi, l’infame di Bolzaneto

Marco Poggi, l’infame di Bolzaneto

14 Dicembre 2006 0 Di thomas

Marco Poggi, da oltre tre anni, sembra il signor K. Come in un libro di Kafka, perde il lavoro, poi minacce e intimidazioni. E quel marchio di infame, con cui i suoi colleghi lo hanno bollato, senza pietà. Al tempo stesso, però, tante persone che lo acclamano come un eroe, un paladino della giustizia.
Cosa ha fatto? Una scelta normale, come dal sottotitolo del suo libro. Ha deciso di denunciare le violenze gratuite perpetrate nei confronti dei manifestanti trattenuti in occasione del Social Forum di Genova 2001. Lui, in quei giorni, era uno degli infermieri in servizio nel carcere di Bolzaneto. Una pagina ancora oscura nella storia d’Italia, su cui Marco Poggi sta contribuendo a far luce. Il libro “Io l’infame di Bolzaneto” è un parto naturale, spontaneo, quasi un atto dovuto. L’autore lo presenta in manifestazioni ed eventi pubblici, perché la verità venga diffusa.
Siamo andati a trovarlo a Bologna. Il carcere in cui lavorava prima degli eventi del G8 è solo qualche isolato più in là. Ci sediamo e lui comincia a raccontare.

Un infermiere che ha scritto un libro, che diventa scrittore suo malgrado. Qual era il suo rapporto con la scrittura e la lettura prima di “Io l’infame di Bolzaneto”?

Con la lettura e la scrittura ho per lo più avuto un rapporto di tipo tecnico. Carteggi e documenti legati alla mia attività di sindacalista. Sono un amante di Freud, che leggo e rileggo spesso con passione, avendo lavorato tanti anni in psichiatria.
Sono diventato “scrittore”, e ci tengo alle virgolette, grazie all’interessamento di Luciana Castellina e Walter Cavatoi, quest’ultimo autore dell’intervista da cui abbiamo estrapolato le pagine del libro.
In tutti i casi l’obiettivo del nostro lavoro è stato quello di dare una testimonianza su quello che è accaduto a Bolzaneto. Infatti, mentre dei fatti accaduti per le strade di Genova in quei giorni ci sono centinaia di filmati televisivi, per ciò che riguarda i fatti che racconto non esiste alcuna documentazione.

Il suo non è l’unico libro scritto sui giorni del G8 a Genova. Si sente parte della “narrativa di denuncia” degli ultimi anni? Ha provato a proporre il libro a case editrici con una maggiore distribuzione sul territorio?
Vorrei che il libro fosse letto da più persone possibile, anche per questo ho consentito che fosse scaricabile gratuitamente da internet, ma non ho mai provato a contattare grandi case editrici. Non so come ci si muove, e comunque l’impegno economico necessario alla promozione penso sarebbe molto gravoso.
Rispetto alla letteratura di denuncia, spero che stiano nascendo il desiderio di raccontare i fatti in modo obiettivo e la voglia di combattere contro la menzogna.

Che idea si è fatto del modo con cui i mass-media hanno affrontato i fatti di Genova?

All’inizio gli avvenimenti sono stati sfruttati al massimo. Poi l’interesse è cominciato a scemare. La cosa che mi delude di più, però, non è il disinteresse dei media, ma quello della classe politica. Tenuto conto che i processi grazie a certe nuove leggi cadranno in prescrizione, i fatti di Genova rischiano di cadere nel dimenticatoio, e questo non deve succedere, anche perché la gente vuole sapere. Col mio libretto giro spesso l’Italia in varie manifestazioni. Quello che notiamo è che la gente partecipa, soprattutto i giovani. La gente non si è stancata di parlare di Genova, perché la “verità vera” su quei giorni non è ancora venuta fuori.

Qual è stato il momento in cui ha avuto più paura? Quando in caserma assisteva ai pestaggi, o dopo, quando sono cominciate le ritorsioni nei suoi confronti?

Nella vita sono un pavido, chiariamolo subito. Ma per quanto riguarda questi fatti non ho provato paura. Piuttosto direi un dolore fisico, un senso di impotenza. Le minacce e le ritorsioni le considero effetti collaterali. Siamo in Italia, e in Italia fare il proprio dovere è spesso rischioso. In più si tende a coprire i picchiatori, e i nostri governanti esprimono solidarietà alle forze dell’ordine. Credo che la solidarietà alle forze dell’ordine si esprima facendo chiarezza, tirando fuori la verità e così tutelando i migliaia di uomini e di donne che davvero rischiano la vita per garantire ogni giorno la nostra sicurezza.
Nessuno cerca vendetta, neanche i ragazzi che hanno subito le torture. Vogliamo chiarezza.

Il padre di Carlo Giuliani ha firmato la prefazione al libro.Neanche lui vuole vendetta?

Lo conosco personalmente. No, non vuole vendetta neanche lui. Ma io credo che un uomo cui muore un figlio in quel modo abbia tutti i diritti morali e civili di conoscere la verità.

C’è una frase che De Gregori ha scritto in una canzone, che recita: “cercavi giustizia ma trovasti la legge”. Ritiene che esista davvero questa dicotomia tra legge e giustizia?

Bisogna scindere le due cose. Ho fiducia sul come sono state fatte le indagini. Però quando un Ministero della Giustizia mi chiede di riconoscere le persone che ho visto compiere quelle azioni e mi presenta vecchie foto, dalle quali mi è impossibile distinguere individui con i quali ho lavorato per alcune ore; quando vengono presentate leggi che introducono la prescrizione per quei reati… Io credo che un cittadino italiano che ha commesso un reato debba pagare. Quella delle forze dell’ordine non è una semplice “condotta scorretta”. Quando picchi qualcuno per il gusto di farlo si tratta di reato, e se a picchiare è un individuo in divisa, che i reati dovrebbe reprimerli, vuol dire che c’è qualcosa da rivedere, che non è adatto a fare quel mestiere.
Non posso aver fiducia nella giustizia quando questa non cerca la verità.

Nel libro racconta che, in un’iniziativa pubblica, una ragazza che si trovava tra i reclusi a Bolzaneto la ha accusata di essere complice dei torturatori, in virtù del fatto che lei ha visto tutto senza però intervenire. Quindi due volte infame…

Sono fondamentalmente tranquillo con la mia coscienza. Sia io che il mio collega Ivano Pratissoli, che con me ha sofferto quei giorni, abbiamo ponderato ogni azione in quei momenti. Io comprendo questa ragazza e non importa cosa pensano di me quei giovani: io sarò sempre dalla loro parte. Anche i miei colleghi non hanno capito che chi sbaglia, anche se è un collega, deve pagare.
La mia unica speranza è che la mia testimonianza e quella di Ivano possano contribuire a far sì che i ragazzi abbiano giustizia.

Tornati da Bolzaneto, lei e Pratissoli avete riflettuto a lungo prima di denunciare…

Ci sono state due fasi. Durante la prima non ci siamo detti niente. Io per un po’ ho addirittura finto che non fosse successo nulla. Ridevo e scherzavo. Cercavo in un certo senso di sdrammatizzare, nel mio mestiere mi è capitato spesso di farlo, è una reazione emotiva. Col tempo però il boccone si è fatto pesante, soprattutto quando ho cominciato a sentire le bugie che raccontavano i politici sui mass-media. Ho cominciato a chiudermi, a non parlare più. Mia moglie se n’è accorta. Ivano ha cominciato a cercarmi, ma io mi facevo negare. Finché un giorno ci siamo sentiti e ci siamo detti “che facciamo?”. Così abbiamo deciso di testimoniare, perché i fatti non vengano insabbiati. Che i reati cadano pure in prescrizione, ma che sia fatta chiarezza. A Genova c’è stato un regime cileno che questo paese non merita, e non ha importanza che a manifestare sia la destra o la sinistra. Tutti hanno diritto di esprimere la loro opinione.

Si è definito un pavido. Forse nel suo caso è una definizione poco credibile. Può darci comunque una sua definizione di coraggio ?

Vi do la definizione di “eroe”, visto che molti, con mio grande fastidio, mi definiscono come tale. Brecht diceva “povero quel popolo che ha bisogno di eroi”, e in Italia la prova provata dell’esistenza di un’antidemocrazia sta proprio nel fatto che chi fa il proprio dovere diventa un eroe. Proprio per questo il sottotitolo del mio libro è “il coraggio di una scelta normale”.
Un eroe, per me, è la persona che, messa con le spalle al muro, ha reazioni che non sono più normali, e riesce a fare cose straordinarie. Non è il mio caso.
Certo, ci sono miei colleghi che sono stati zitti e hanno ancora il posto di lavoro, e poliziotti che negli anni, dopo i fatti di Genova, hanno fatto anche carriera, ma mi reputo comunque una persona normale. Ho compiuto un’azione in favore di due cose che per me hanno un’importanza inestimabile: la verità e il risarcimento morale nei confronti dei giovani, di quei giovani.
Eroe no, per piacere.

Nei giorni precedenti gli eventi di Bolzaneto c’era un’atmosfera che poteva far presagire avvenimenti così gravi?

No, assolutamente. Quando ho visto, Giacomo Toccafondi, il medico della caserma in tuta mimetica ho pensato fosse il solito bambino “machizzato”, che ama la guerra. Solo dopo mi sono reso conto di cosa stava succedendo.

Ciò che è accaduto nella caserma può essere imputato, secondo lei, anche ad una “dinamica del branco”?

Ci sono senz’altro delle responsabilità imputabili ai capi, perché erano lì, vedevano tutto e non facevano nulla. L’altra cosa raccapricciante è la motivazione che dava chi compiva queste violenze: “devono essere educati, così non lo fanno più”. Oppure “se stavano a casa loro non sarebbe loro successo nulla”. C’è stato un branco, sì: di persone che hanno un’idea molto strana della divisa e del potere. Le azioni le commette il braccio, ma le ordina la mente. E’ questo che deve preoccuparci.

Ha avuto modo di parlare con altri medici e infermieri che erano a Genova in quei giorni? Che cosa le hanno raccontato?

Tutti quelli con cui ho parlato erano inorriditi. E’ ovvio, chi fa il nostro mestiere è per la tutela e la salvaguardia della salute della persona, non per cagionare ad essa sofferenza fisica. Ho incontrato solo un medico, in seguito, tra quelli presenti a Bolzaneto. Ha visto me e Ivano e ci ha detto “Avete combinato un bel casino”… Noi? La cosa che veramente mi rattrista e mi indigna è che molti colleghi continuano ad asserire che nella caserma non hanno visto nulla. Si continua a cercare di tenere nascosti i fatti proteggendo chi non lo merita. Un sanitario non può fare questo. Quando dico che sono colpevole come gli altri è perché nel nostro codice deontologico c’è scritto che siamo tenuti ad impedire qualsiasi atto di violenza commesso nei confronti di una persona.
In caserma ho preferito tacere per timore che gli agenti si indispettissero e peggiorassero ulteriormente il loro comportamento. Ma da questo punto di vista sono comunque colpevole.

Quindi tutti i sanitari nella caserma di Bolzaneto hanno assistito, in un modo o nell’altro, agli avvenimenti che lei ha denunciato.

A Bolzaneto eravamo cinque medici e sei infermieri, e certamente tutti hanno assistito. Lo testimonierò di fronte a qualsiasi tribunale.

Si sarebbe mai aspettato di dover assistere un giorno a scene come quelle che ha raccontato nel suo libro?

Se me lo fossi aspettato avrei potuto dimostrare che non sono un eroe. Non ci sarei andato. Sono comunque contento di ciò che mi è accaduto, anche se sembra illogico. Ora capisco molte cose. Prima di quei giorni ero un uomo come tanti, che pensava a pagarsi il mutuo e a farsi gli affari suoi. Mi sono svegliato. E ho capito che la democrazia non è mai un fatto compiuto.
Spero che la mia testimonianza sia uno strumento di giustizia e serva per dare un risarcimento tanto ai ragazzi quanto alla parte buona della polizia, quella che fa seriamente il proprio lavoro. E ci tengo a precisare che, secondo me, in Italia abbiamo una polizia sana. C’è un bubbone malato che va estirpato. Se restituiamo fiducia alla polizia, restituiamo fiducia anche al cittadino.

Come procede oggi la sua vita? Ha mai subito intimidazioni e minacce, al di là del mobbing di cui parla nel libro?

No, a parte alcuni danni all’auto e una minaccia di morte giunta alla casa editrice, non ho subito alla fine alcun tipo di violenza. Per quanto riguarda il mio lavoro, non sono mai stato licenziato, in quanto sono un collaboratore professionale, e non un dipendente. Dopo il G8, ritornato al carcere di Bologna, dove lavoravo abitualmente, mi è stato “consigliato” di non frequentare più il carcere per evitare ritorsioni da parte degli agenti. Forse mi è stato detto davvero in buona fede, per il mio bene. Poi anche mia moglie mi ha chiesto di non rischiare oltre.
In tutti i casi nessuno ha avuto ancora il coraggio di licenziarmi. Attualmente lavoro in un ospizio qui a Bologna, e sono felice di poterlo fare. Lavorare mi offre la possibilità di continuare a fare l’infame. Essere infame non è sempre negativo, a volte è anche nobile.
Non eroico. Nobile.